10 aprile 2007

Fil Rouge

So benissimo di essere un po' fuori tempo massimo, ma la solita curiosa coincidenza mi ha ispirato per una delle mie solite riflessioni.
Questo weekend pasquale è scivolato via tra pomeriggi sonnacchiosi, nottate passate a dormire fin dalle 22 o a calcare i pavimenti scivolosi di una discoteca milanese fino a mattina; domenica sera, nel luogo meno indicato ho sentito lanciare un appello a riflettere per ciò che era successo al sedicenne suicida di Torino: un applauso ha coperto quelle parole che venivano dette al microfono da una donna, molti se ne stavano composti con le mani in tasca, altri partecipavano sentitamente quasi come per rendere giustizia a qualcuno che ha deciso di buttare via la propria vita per un insulto. Quanti siano stati quelli che hanno avuto l'istinto di applaudere ma pervasi da un sentimento di totale confusione non lo so, ma io ero tra quelli, e ora voglio darvene una motivazione ben precisa.
Il fatto credo sia arrivato all'attenzione di molti, i media ne hanno parlato a lungo, alcuni di essi dimostrandosi poco obiettivi e nuovamente avvezzi a quella brutta abitudine che viene scambiata per perbenismo e "rispetto ai familiari" chiamata ipocrisia: Studio Aperto, uno a caso, nel servizio di sabato mattina ha fatto intendere che il ragazzo "si era suicidato solo perché i suoi compagni gli davano del gay, mentre lui era solo un ragazzo gentile"; ammettiamo pure che questo povero ragazzo non sia stato omosessuale, ma che bisogno c'era di far passare il messaggio che quei froci di merda non possono essere scambiati per dei ragazzi gentili? Scusate il linguaggio scurrile e lo sfogo. Alcuni blog che leggo abitualmente hanno trattato in diversi modi la notizia, mantenendo un comune profilo realista e perfettamente condivisibile.
Fin qui, direte voi, ci sono solo le ragioni per battere le mani a favore di una causa assolutamente giusta. Corretto, ma c'è un elemento che lega il mio ragionamento all'impotenza che ha sentito fortemente quel ragazzo, in mezzo c'è Abdellah Taia.
Durante il mio viaggio a Barcellona dello scorso ottobre, cercai di mettere alla prova il mio spagnolo anche leggendolo: la domenica in cui mi presi un giorno di relax al mare, comprai El Pais e nell'inserto settimanale EPS lessi questo articolo; fortunatamente ho sempre la buona abitudine di conservare come ricordo i giornali, e ora ho davanti a me questa rivista. Cercherò di riassumere per chi non comprende lo spagnolo, e per tutti quelli che non conoscono questo personaggio visto che su Internet ci sono pochissime pagine Web in italiano su di lui.
Abdellah Taia è un trentatreenne marocchino e scrittore residente a Parigi da diverso tempo, città che lo ha accolto con molta freddezza, ma che gli ha permesso di dar voce alla propria causa. Lui è il primo marocchino che ha avuto il coraggio di rompere un tabù, dichiarando pubblicamente la propria omosessualità, ancora punita col carcere nel proprio paese. E' stato in questi ultimi anni riconosciuto come uno scrittore molto capace, e forse la sua bravura è stata offuscata dai media (arabi e francesi) che hanno ovviamente cavalcato a proprio beneficio la notizia. Nacque in un quartiere molto povero di Salé, cittadina vicina a Rabat, e nel suo lungo articolo racconta di una società fortemente ipocrita, che nega l'omosessualità ma allo stesso tempo ignora la possibilità che possa essere vissuta privatamente. A dieci anni, oltre ad aver avuto già contatti con persone coetanee dello stesso sesso, aveva pure un amante ventiquattrenne. Nemmeno negli ambienti religiosi, scrive, tutto ciò era estraneo: il proprio maestro della scuola coranica era solito ad intrattenersi coi discepoli, e in Marocco tutti sono a conoscenza del fatto che molti di essi sono pedofili ma nessuno si preoccupa, inviando i propri figli in questi luoghi esponendoli a possibili pericoli. A tredici anni Abdellah ha visto con i propri occhi gli abusi subiti da un proprio compagno di scuola, violenze verbali e sessuali che lo portarono a nascondere profondamente il proprio segreto, maturando però il desiderio di renderlo vivo in un futuro non troppo remoto attraverso gli studi. Ora che vive a Parigi, ha la possibilità di spiegare al mondo le proprie ragioni, le proprie sofferenze, le proprie convizioni. Scrive:

In Marocco è necessario dimenticare la vergogna che ci fanno sentire fin da piccoli e arrendersi alla lotta. Non dire il vero significato delle cose, cedere alla dittatura di una società nella quale ci chiniamo molto velocemente alle gerarchie e alle tradizioni secolari che, invece di mostrarci la via per la libertà, si preoccupa prima di tutto della propria permanenza.

Il suo racconto mi è piaciuto molto, e rileggerlo mi ha fatto pensare alla possibilità che esista un sottile filo rosso che leghi lui, quel sedicenne, me e molti altri. Il silenzio, la vergogna, le violenze verbali e fisiche fanno parte di questo mondo, e la nostra società seppur "superiore" (espressione orribilmente comune) non ne è esente. L'elemento che mi crea enorme confusione in testa è l'impotenza che può avere non solo una voce fuori dal coro, ma pure chi prende in mano quel megafono per scagliarsi contro certe intransigenze: la rabbia, sentimento condivisibile, è niente in confronto al vuoto creato dal pensiero che in quella società ci siamo pure noi, finora incapaci di usare la testa per alzare la voce o ragionare pacatamente.
I tabù e i pregiudizi non sono mai stati abbattuti solo con le parole, magari ricche di sentimenti ma vuote nei contenuti: a malincuore devo dire che nel nostro paese non c'è più cultura, nessuno si preoccupa più di come arricchire una persona: è solo attraverso la conoscenza che si fa crescere un bambino sano e robusto nei propri convincimenti e grazie alle scoperte quotidiane lo si pone al riparo da miopie nei giudizi; Abdellah riconobbe immediatamente nella conoscenza del francese la sua libertà, lo studio gli avrebbe permesso di superare i propri limiti (e anche quelli degli altri).
Se non ricordo male, pure quel giovane torinese era il più bravo della sua classe, a detta di Studio Aperto.
Quel filo rosso è la cultura.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Fa male il tuo post. Forse perché, chi più chi meno, ci chiama tutti in causa. O perché vittime o perché, con la nostra apatia, complici.

Blasphemo ha detto...

Pensandoci bene, mi sembra di essere stato il solito bacchettone che spara sentenze a salve...però stavolta credo fermamente in quello che ho scritto :o)